AMERICANAH

Le reali possibilità per uno scrittore esordiente di pubblicare il proprio libro

MARIA ROSA GIANNALIA

AMERICANAH
di Chimamanda Ngozi Adichie

Uscito in Italia nel 2014 per i supercoralli di Einaudi nella traduzione di Andrea Sirotti,
questo romanzo di Chimamanda Ngozi Adichie, è particolarmente elaborato poiché è costruito su una sottile trama ricchissima di fatti minuti ma difficile da ricondurre ad una ricostruzione che contenga una visione unitaria di quanto l’autrice ci vuole raccontare.
O meglio, dovrebbe essere il lettore a ricostruire, attraverso tutta la marea di piccoli fatti intrecciati, una visione d’insieme della cultura di provenienza, di arrivo e di ritorno dell’autrice.
Vediamo come è costruito questo romanzo.
Intanto di che parla?

Il romanzo racconta la storia di una giovane donna nigeriana, Ifemelu, emigrata negli Stati Uniti per frequentare l’Università di Princeton. Il libro racconta la vita della donna in entrambi i Paesi,
Nigeria e States e la sua storia d’amore con il compagno di liceo Obinze.
Ifemelu, nella terra di arrivo, ha modo di vivere, lavorare, condividere la vita degli afroamericani, in particolare dei suoi connazionali nigeriani.
La prima parte del romanzo presenta la protagonista, di nome Ifemelu, immersa nella società statunitense. Questa donna, giovane, intelligente, colta è curatrice del blog Razzabuglio nel quale si propone di analizzare, descrivere e parlare genericamente dei problemi dei neri non americani – di recente immigrazione – che si ritrovano a vivere negli USA a contatto con i neri americani e i bianchi.

L’autrice chiarisce da subito le grandi differenze che esistono tra queste tre categorie di persone e rileva come, attraverso piccoli gesti, frasi, atteggiamenti si evincano le grosse differenze di educazione culturale, di esigenze di vita e di aspettative.
La protagonista Ifemelu è il narratore interno ed è direttamente dalla sua voce che il lettore apprende i piccoli eventi quotidiani raccontati con un linguaggio frizzante, in apparenza leggero e disimpegnato e molto molto carico di ironia e autoironia.
Già a partire da questa prima parte emerge come l’autrice si rifaccia ai canoni espressivi e narrativi delle scrittrici americane attuali, quelle di maggiore successo di pubblico e di vendite. In particolare quelle che, con linguaggio leggero, ironico ma anche superficiale, raccontano le storie attraverso narrazioni in prima persona.

Questo tipo di scrittura mi ha molto ricordato, ad esempio la scrittura di Sophie Kinsella, autrice di libri comici di successo planetario che si connota per un linguaggio particolarmente vicino al parlato americano tutto cose e poche riflessioni, pochissimo impegnativo e molto appetibile da un pubblico femminile che gioca continuamente con le letture disimpegnate.
Solo che Chimamanda Ngozi Adichie deve raccontare storie ben più impegnative, altamente drammatiche se viste nel panorama generale dei conflitti razziali, delle immigrazioni e delle difficili integrazioni. Pertanto, questo linguaggio prescelto sembra adattarsi poco ad esprimere problemi, sentimenti, emozioni di generazioni di immigrati a contatto con una cultura, quella americana, che nella sua apparente democrazia e libertà, nasconde non poche forme di sottile razzismo mascherato da buone intenzioni e da disponibilità d’animo da parte, soprattutto, delle famiglie dei bianchi americani. Specie laddove queste famiglie, possibilmente ricche e dunque senza problemi economici, non capiscono il dramma dei neri immigrati e lo sforzo dei neri, soprattutto non americani, nell’identificarsi in una cultura che essi avvertono come estremamente distante dalla propria e pur tuttavia desiderabile.
Questa dicotomia tra le tematiche da affrontare e il linguaggio adoperato, provocano una dissonanza narrativa che potrebbe infastidire fin dai primi capitoli.
L’autrice, infatti, dovendo fare rilevare direttamente dal racconto delle cose e delle azioni, la drammaticità del narrato, come è tipico di certa narrativa americana di maggiore consumo, si dilunga in un eccesso, assolutamente ridondante, di ogni azione, anche apparentemente insignificante, finalizzata a immettere il lettore nell’atmosfera di vita e dei problemi dell’io narrante e di tutti gli altri personaggi che sono a lei collegati. Peccato che tale operazione esiti in un racconto troppo minuzioso e , a tratti, stancante.
Ne viene fuori un guazzabuglio di narrazioni frammentate dove tutto è accolto con la stessa gerarchia in un tempo dilatato dove il tempo della storia coincide col tempo del racconto. E pertanto il lettore e la lettrice si ritrovano, con la protagonista, ad assistere ad interminabili sedute dal parrucchiere per la lisciatura dei capelli o per le pettinature a treccine tipiche della cultura afroamericana. Tutto questo, se pure ha il senso di rendere espliciti i problemi, non solo attraverso la narrazione, ma attraverso una minuziosa descrizione delle cose, fa sì che il lettore si perda in labirintici meandri narrativi in cui viene trascinato da un fiume in piena di parole che porta con sé gli aspetti fondativi della storia insieme ad una miriade di altre micro-narrazioni che avrebbero potuto, senza alcuna sofferenza da parte né del lettore né della narrazione vera e propria, essere omesse.
La seconda parte è tutta dedicata al racconto del rapporto della protagonista con la madre, alla vita, agli usi e costumi del suo popolo, alla rete parentale, alla corruzione che dovunque regna in Nigeria persino all’interno delle chiese cristiane di cui anche sua madre è una praticante devota. Il tutto attraverso una narrazione frammentata e labirintica dove il lettore a stento riesce a ricostruire le trame delle storie dei personaggi o, quando crede di esserci riuscito, perde continuamente il bandolo centrale dell’impianto narrativo.
Forse la terza parte, ambientata a Londra, è quella che richiede meno sforzo al lettore: per lunghi tratti l’autrice riesce ad essere una buona affabulatrice, senza disperdere le sue energie in rivoli e anfratti laterali. Questa è la parte che, a livello personale, ho apprezzato di più, forse perché non mi è stato troppo difficile l’atto della ricostruzione della storia attraverso il mio immaginario o forse perché l’autrice riesce qui a utilizzare delle forme narrative più distese, senza l’ansia del racconto sincopato, tipico di certo stile americano. O forse anche perché l’ambiente in cui si muovono i personaggi è a me più familiare, trattandosi di Inghilterra, dunque un luogo geograficamente più vicino alla mia cultura. Non so.
La narrazione crea attesa: la protagonista è sempre macerata dal pensiero del ritorno in Nigeria dove ha le sue radici alle quali anela di ritornare ma reinterpretandole alla luce dell’esperienza accumulata in America. Ma soprattutto per collocarsi in un mondo che dia un senso più preciso alla sua vita magari all’interno delle relazioni da reinventare con gli amici della sua giovinezza.
Nella lettura che ne ho fatto non nascondo che da questo momento in poi ho cominciato a saltare molte pagine o interi capitoli alla ricerca, nelle altre parti (quarta, quinta e sesta) del nocciolo della questione, per cercare di capire se la protagonista riuscirà a prendere la decisione di tornare in Nigeria, abbandonando gli amanti via via conquistati, per tornare alle radici della sua vita , avendo come riferimento quell’unico grande amore, Obinze, abbandonato anni prima senza una doverosa spiegazione.
La decisione infine è presa: al ritorno in Nigeria, a Lagos, la protagonista si mette alla ricerca dell’antico fidanzato Obinze con la sicura determinazione a riprenderselo, senza alcun problema di carattere morale né psicologico rispetto alle scelte che quest’ultimo – abbandonato e ignaro della vita di lei, senza più notizie – aveva deciso di fare per sé, sposando un’altra bella ragazza locale e creandosi una famiglia, non felice ma tuttavia serena e soprattutto integrata profondamente nel tessuto sociale nigeriano.
Anche quest’ultima parte, insieme alla terza, è quella dove la scrittrice riesce ad avere una mano abbastanza felice: la descrizione della caotica vita della città, del crollo dei valori tradizionali di quella civiltà a favore di una cattiva imitazione dei modelli culturali americani, mi ha commossa, ed è stato per me l’unico momento di riscatto per il lungo tempo che ho impiegato nella non facile (né gradevole) lettura di questo romanzo di circa cinquecento pagine.

Nota biografica

Chimamanda Adichie è nata il 15 settembre 1977 a Enugu e cresciuta a Nsukka, una piccola cittadina universitaria nel sud della Nigeria. Quinta di sei figli, appartiene a una famiglia di etnia igbo. Il padre, James Nwoye Adichie, lavorava come professore di statistica presso la locale Università della Nigeria; la madre, Grace Ifeoma, fu la prima donna a diventare direttrice della stessa università..

A diciannove anni vinse una borsa di studio per frequentare il corso di Comunicazione all’Università di Drexel, Filadelfia, dove visse per i due anni successivi. Si trasferì poi in Connecticut per studiare comunicazione e scienze politiche alla Eastern Connecticut State University e scrisse diversi articoli per il giornale universitario, il Campus Lantern. Nel 2001 si laureò con il pieni voti e la lode e iniziò un master in scrittura creativa all’Università Johns Hopkins, Baltimora.

Il suo esordio letterario avvenne nel 1997 con la pubblicazione di una raccolta di poesie, Decisions. L’anno dopo scrisse un’opera teatrale, For Love of Biafra, che narrava la vita di una giovane donna Igbo, Adaobi, e della sua famiglia, al tempo della guerra civile nigeriana.

Durante gli ultimi anni di università iniziò a lavorare al suo primo romanzo, Ibisco viola (Purple hibiscus), pubblicato nel 2003. L’opera ottenne un grande successo e importanti riconoscimenti, come l’Orange Prize, assegnato al migliore romanzo pubblicato nel Regno Unito, e il Commonwealth Writers’ Prize. Il libro venne tradotto in italiano nel 2006, e nello stesso anno venne pubblicato in Inghilterra e negli Stati Uniti il suo secondo lavoro, Metà di un sole giallo (Half of a Yellow Sun). Per quest’opera la scrittrice vinse numerosi premi, come l’Orange Prize nel 2007, e nel 2009 ricevette in Italia il premio internazionale Nonino.

Nel 2008 ha vinto il premio MacArthur Fellows Program e ottienuto un master in studi africani all’Università Yale. Nel 2015 la rivista Time l’ha inserita nella lista delle cento persone più influenti al mondo. In più occasioni è stata nominata come «la figlia del ventunesimo secolo di Chinua Achebe».

Adichie vive tra la Nigeria e Baltimora, è sposata con Ivara Esege, medico a Baltimora, e nel 2016 è nata la loro prima figlia. Nel 2017 l’Haverford College[11] e l’Università di Edimburgo le hanno conferito una laurea honoris causa. Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Chimamanda_Ngozi_Adichie#Biografia

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